sabato 12 marzo 2011

Avatar di James Cameron

PRIMA LA TRAMA,…

Nel 2154 una compagnia interplanetaria terrestre (RDA) trova e studia dei giacimenti minerari su un pianeta sconosciuto, Pandora. Questo è un pianeta primordiale, ricoperto da enormi e foreste pluviali e da alberi alti 300 metri. E’ abitato da degli essere chiamati Na’vi, alti tre metri e con una carnagione azzurra con macchie di vari colori verdastri. L’aria di questa specie di satellite non è compatibile per gli esseri umani, non è respirabile, quindi gli uomini terrestri hanno creato degli Avatar, che sono corpi ibridi genetici dei Na’vi. Con un interfreccia del cervello l’uomo può collegare se stesso all’Avatar. Ma il collegamento è possibile quando l’uomo di trova in uno stato di coma, all’interno di una capsula tecnologica. Compito dell’uomo, e anche del protagonista, l’ex marine paraplegico Jake Sully, che con un nuovo corpo sarà in grado finalmente di tornare a camminare, è quello di studiare e di portare sulla terra un cristallo con la capacità unica di fare da superconduttore a temperatura ambiente, e per la Terra sarebbe essenziale. Sully e la dottoressa Augustine sono i primi insieme ad altri ad essere mandati all’esplorazione del nuovo mondo. In una foresta Jake fa la conoscenza della guerriera Neytiri, che vede in lui i segni di Eywa, divinità locale. Jake è curioso, interessato, non può fare a meno di scoprire una nuova realtà che prima lo spaventa e poi lo affascina.
Egli scopre tutto quello che c’è da sapere su Pandora, grazie anche alla sua amica guida. Jake non può fare a meno di innamorarsi di lei, ed è contraccambiato, anche se la cosa non è ammissibile per i Na’vi. Ma il nostro eroe riesce comunque ad essere accolto. Jake e la dottoressa Augustine si affezionano così tanto al posto che non vogliono più tornare sulla terra, rinunciando così all’ingente premio promesso dai terrestri.
Improvvisamente il colonnello Quaritch attacca Pandora e i suoi abitanti pur di portare sulla Terra il prezioso cristallo. Prima c’è lo sgomento da parte dei Na’vi per via dell’abbattimento dell’albero, ma poi c’è la reazione che si tramuta in una ferocissima battaglia, dove Jake rimane gravemente ferito. La battaglia è vinta dai Na’vi che ora possono vivere in pace, e con l’aiuto dell’amore di Neytiri riusciranno a salvare in extremis Jake, che diventerà effettivamente un Na’vi.

…DOPO LA CRITICA

Cominciamo parlando dell’iperbole degli incassi: Avatar ha il primato del mondo con un guadagno di 1 miliardo e 800 mila dollari, che supera la cifra raggiunta dall’ex capolista, Titanic, dello stesso Cameron. Questa iperbole ha una certa logica. Il meccanismo usato da Cameron è sempre lo stesso di Titanic: grandi e consistenti effetti speciali, che implica sempre una quantità enorme di gente nelle sale, soprattutto un pubblico di giovane età, anzi molto giovane, perfetto per accogliere un fenomeno come lo è Avatar.                    
Non parliamo del digitale, che mai come in questo film ha segnato un passaggio influente e decisivo nella storia del cinema, il famosissimo e tanto osannato 3D. Ecco, “effetti speciali” e “digitale” sono le parole magiche per il trionfo del botteghino, come è di buon costume dal 2000 ad oggi, forse anche prima.
Possiamo dire che in questo Cameron è davvero un mago, uno stregone che con la sua magia ha fondato un impero sugli effetti speciali, grazie soprattutto all’aiuto della Weta Digital Workshop di Wellington, fondata credo da Peter Jackson con la notevole supervisione di Joe Letteri, vincitore di numerosi Oscar ( Il signore degli anelli, King Kong e lo stesso Avatar), e dell’Industrial Light & Magic di George Lucas e, perché no, anche di Steven Spielberg ormai. Questa ha fatto gli effetti speciali di quasi tutti i film più importanti, come Guerre stellari, Jurassic Park, Indiana Jones, Harry Potter e Pirati dei Caraibi.
Ma con questo carico di effetti speciali non voglio dire che il risultato è assurdo, forse un po’ esagerato lo è anche, ma voglio dare un punto a favore a lo stesso Cameron, perché il compito di un regista del suo calibro è anche quello di osare, in questo caso tentando di ribadire con tutta la potenza possibile una storia che è già stata raccontata più volte, ma rendendola più spettacolare… e se non può farlo un pezzo da novanta come James Cameron allora non saprei proprio a chi potermi rivolgere.
In fin dei conti il pericolo è proprio questo, che è esattamente quello dove Avatar è caduto e dal quale non si è ancora rialzato: il fatto che altri illustri maestri di cinema odierni e di altre epoche hanno già toccato e superato il tema di quello che potremmo chiamare “Eden”.
Intendo dire che nel cinema ci sono molte “chiavi”, o se vogliamo “messaggi”.
Partiamo con l’eroe, ossia l’avventura e il ritorno (da l’Odissea a Indiana Jones), l’Aldilà (Dante), l’amore che resta immortale nel tempo (Romeo e Giulietta, le opere di Shakespeare), passioni estreme (che partivano già dai miti tragici greci), i classici di Cenerentola con il mito della libertà ricercata, voluta e ottenuta, Freud e la letteratura (come esempio illustre mi verrebbe da citare Hitchcock). Ma il primo vero sentimento che si va a ricercare in effetti è proprio “l’Eden” che dicevo prima.
E’ il primo desiderio di ogni uomo o essere umano, almeno credo; comunque è nostro e da noi non si muove.
Eden o “ricerca della felicità” la troviamo quando un uomo vuole uscire dai soliti luoghi comuni, che molto spesso rischiano di diventare noiosi, anche se di solito il processo “noia” è già integrato da molto tempo.
Un uomo ha una propria civiltà ed educazione, sopraffatto dalla noia o da altri sentimenti come l’odio e la rabbia, tenta di ribellarsi, di evadere dalla propria realtà, come fece il protagonista di George Orwell, Winston Smith, in 1984, dove è costantemente alla ricerca di un luogo che non sia “oscuro”, che non sia controllato da un ente pubblico. Anche Tarzan può diventare un esempio coerente, perché decide di restare tra i suoi animali e nella foresta, piuttosto di andare in città e di “civilizzarsi”.
Questo ovviamente c’è anche in Avatar, che si ispira e si affeziona a questo luogo comune, e lo riprendere addirittura fino ad eccedere, ma dipende un po’ dai punti di vista e dai gusti.
Aprendo ora una chiave mistica, mi ha colpito un altro luogo comune, di grande impatto nel film, cioè quello de “l’albero della vita”. Esso è una pianta enorme, grandissima, immensa, bianca, colma di mistiche.
Un vegetale che trattiene tutta l’energia presenta sul pianeta, la protegge e vi custodisce anche tutte le anime precedenti al nostro racconto. Gli Avatar la adorano come una divinità, la divinizzano proprio, non ne possono fare a meno, addirittura ci vivono. Questo famigerato albero l’abbiamo già visto, diciamo che ha dei precedenti, se vogliamo pure degli avi. Quello che possiamo ricordare meglio, di grande memoria nel cinema più giovanile, quello di Pochaontas della Disney, identificata da “Nonna Salice”. Spero di poter dire con tranquillità che Cameron e i suoi effetti speciali hanno preso molto dalla cultura disneyana.
Ma ci sono tante cose, tanti oggetti, tanti particolari che possono essere ricondotti a Disney: L’Avatar ha una specie di lunga treccia dietro la coda, e anche gli animali domati da loro l’hanno. Hanno cavalli ed esseri volanti che devono saper domare per meritarsi la fiducia della propria gente. Il tutto si collega con la treccia, che collegandola ad un’altra garantisce fedeltà ed amicizia reciproca, appartengono l’un l’altro. Questo tipo di rapporto vale con qualunque genere di cosa, anche con le piante, con qualsiasi elemento naturale. Questo indubbiamente è un richiamo che fa venire in mente un legame sensuale e sessuale, che, anche se celato, è sempre stato fatto intuire nei cartoni animati di Walt Disney. E’ un marchio di fabbrica, equivalente ad un incantesimo, alla magia che dagli anni ’30 è diventata la firma dei nostri affezionatissimi “cartoni animati”.
Avatar senza ombra di dubbio è un film regale, destinato per forza di cose ad avere una voce in capitolo nella storia del cinema mondiale, ma può essere qualcosa di dannoso, un esempio ormai già troppo visto, sovradimensionato. “Effetti speciali” e “digitale” sono la salvezza per la nostra creatività e quella del cinema, ma a volte il troppo stroppia.  

Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg

Il 6 giugno del 1944 il Capitano John Miller (in realtà un comune docente delle scuole superiori, ma preso come capitano) effettua lo sbarco a Omaha Beach insieme ai suoi uomini. Qui se la devono vedere contro i tedeschi in un micidiale combattimento a fuoco.
Finito l’interminabile scontro il generale George Marshall, comandante di tutta l’armata americana, ordina a Miller e ai suoi uomini di andare alla ricerca e di trovare il soldato Francis Ryan, dopo aver appreso che la famiglia Ryan ha già perduto tre figli e che non vuole perdere anche il quarto.
Questi si è paracadutato per errore in Normandia, oltre le linee nemiche.    
                                    
Quando verrà trovato, se sarà trovato, dovrà far ritorno a casa. Il capitano e i suoi protetti saranno costretti ad una ricerca estenuante, ai limiti dello stress e della sfiducia, fino a portarli al ritrovo di loro stessi… quando si dice che la guerra è fatta per far perdere le orme di se stessi, questo film ha una risvolta al contrario. Il fatto di cercare il soldato Ryan è un escamotage, anzi, una figura retorica. Ryan è visto come una meta, una linea che dopo averla oltrepassata segnerà per Miller e i suoi compagni la fine della guerra (anche se loro lo capiranno solo quando ormai sarà sopraggiunta la fine). Ryan più come persona è inteso come un oggetto, come una coppa da vincere.. e i nostri eroi la vinceranno, perché è così che deve andare in un buon film americano di guerra che si rispetti.
Francis Ryan “assumerà” un aspetto umano solo alla fine del film, quando ormai sono passati decenni e lui è diventato anziano. Sulla tomba dell’eroe che ha fatto di tutto per ritrovarlo, il capitano Miller, si domanda se si sia veramente meritato di restare vivo in quella guerra e soprattutto in quelle battaglie che hanno segnato per sempre la storia della guerra, dell’America e soprattutto dell’intera umanità. Ne rimarrà soltanto una bandiera americana a stelle e strisce, grigia e buia, quasi consumata, che sventola piano piano.
Questo è un dramma bellico d’alto rango, di incredibile pregio, che lo si può dividere in 3 atti:
1. lo sbarco in Normandia. La guerra vista come carneficina e caos ( i primi 24 minuti forse sono quelli più acclamati della storia del cinema, mai creato uno sbarco con un pathos così intenso, così simbolico, è perfetto!.. e da vedere e sentire più volte! )
2. La ricerca di Ryan. Forse un po’ troppo convenzionale e già vista su più piani, ma è ricca di problemi, di questioni che non portano a una risposta precisa.
3. La battaglia nel paesino di Ramelle. E’ un finale d’alto cinema. Una squadra che lotta allo stremo per tenere in vita Ryan, il simbolo della libertà, ed un ponte, che è il segno della fraternità e dell’amicizia che tiene legato più paesi.
Film di grande impatto e di enorme bellezza, soprattutto tecnicamente, ma anche pieno di stereotipi, come è consueto nei film di Hollywood… e guai se non lo fosse.
Nordamerica e Francia mai realizzate in questo modo: i tedeschi nemici fino a prova contraria e la Francia di un vuoto incredibile. Il tutto diventa di un nostalgico pazzesco.
Questo può effettivamente definirsi un film DI guerra. E’ differente da “La sottile linea rossa”, quello è SULLA guerra. Non è nemmeno paragonabile all’ottimo “Full metal jacket” di Kubrick e neanche al mio avviso scarso “Apocalypse Now”  di Coppola.
5 Oscar meritatissimi (e forse anche troppo pochi): regia (Spielberg di un’incredibile creatività ed incisività, magistrale fino a prova contraria), fotografia (Janusz Kaminski, la migliore di sempre), Montaggio (Michael Kahn, eccezionale), suono e montaggio sonoro (Gary Rydstrom, di una bravura immensa). Da evidenziare anche la grande bravura di Tom Hanks nei panni del capitano Miller. Per l’Oscar del’99 dopo Roberto Benigni (La vita è bella) e Edward Norton (American History X) veniva subito lui…. Anche se forse doveva vincerlo Jim Carrey per “The Truman Show” che non fu nominato inspiegabilmente.
E’ decisamente un film made in U.S.A, ma con un fascino straordinario, un’epopea incredibile, che non può fare a meno di essere il maggiore film di guerra di tutti i tempi.