Questa è la vicenda, o forse è meglio dire la triste favola, di Guido Orefice, un cameriere toscano ed ebreo che sul finire degli anni ’30 incontra Dora, una maestrina del paese, e se ne innamora perdutamente a prima vista. Lui tenta in tutti i modi di conquistarla, facendosi credere un personaggio borghese, arrivando anche a essere ridicolo in molte occasioni, ma efficace, come nell’occasione della scuola dove lei insegna. Lui è ossessionante nei suoi confronti, anche se la tratta in modo assai garbato, proprio come una vera “principessa”, e alla fine riesce ad avere il suo cuore.
Il film è diviso in due parti, questa era la prima: una storia d’amore che la si potrebbe definire proprio all’italiana: dolce, sensibile, troppo romantica, un amore cercato, voluto e raggiunto, dove l’uomo può essere paragonato a quello rinascimentale, che si umilia e si autodistrugge per profanare il cuore della bella donna amata.
E il galantuomo che davvero ama riesce sempre a ottenere ciò che vuole, o quasi.
La seconda parte è triste, tragica, perché racconta di un fatto triste della vita, la parte più triste dell’esistenza umana: la seconda guerra mondiale e i campi di sterminio.
Guido e Dora hanno un figlio, Giosuè, di 6 anni, e se lo godono con tutte la loro energia e passione.
In questo intervallo di tempo però sono arrivate anche lo scoppio della guerra, le leggi razziali del 1938 e quindi le deportazioni. Come detto prima Guido è ebreo, di conseguenza anche suo figlio.
Così sono chiamati dai nazisti a salire su un treno con destinazione i campi di concentramento.
Dora per non staccarsi dalle due persone a lei più care decide di salire su quel treno che religiosamente non le appartiene. Arrivano, il bambino è ignaro di qualunque pericolo, anche perché il padre e lo zio gli fanno credere che è un gioco a premi, con in palio un carro armato se si arriva a totalizzare mille punti.
Il bambino arriva alla fine del gioco, trovandosi davanti un carro armato statunitense che crede di aver vinto. Il soldato lo fa salire, fanno un giro e Giosuè per strada ritrova sua madre, che alla fine resta la sua più grande vittoria in questo gioco devastante. Guido non arriva ai mille punti.
E’ un film a dir poco straordinario, probabilmente tra i primi tre che l’Italia si mai stata capace di sfornare dalla propria cinematografia.
Importante anche per i temi che affronta: son due film in uno, prima vi si tratta dell’amore tra uomo e donna, poi dell’odio tra razze. Comunque sia, la prima parte spiega e giustifica la seconda.
Il tutto è nettamente separato per ambientazioni, toni, luci e colori, con una straordinaria fotografia del leggendario direttore Tonino Delli Colli, divenuto celebre insieme a Fellini.
Roberto Benigni è diventato una star al 100% con questo film, che segna la sua sesta regia dopo lungometraggi di buon calibro, ma non fantastici, come “Il piccolo diavolo”, “Johnny Stecchino” e "Il mostro".
E’ decisamente un film da Oscar: vince ben tre statuette su sette nomination per il Miglior film straniero (ovviamente aggiungerei), Attore protagonista a Benigni (ed è una vittoria sensazionale per lui e per il nostro paese) e per la Colonna sonora indimenticabile di Nicola Piovani. Fu nominato anche per Miglior film, Regia di Benigni, Sceneggiatura (scritta a quattro mani dal comico toscano Vincenzo Cerami) e il Montaggio.
Vince anche 5 Nastri d’Argento, che ormai hanno più prestigio dei David di Donatello.
Nella televisione italiana questo film registra un record: E’ il film più visto in RAI (anche se credo che ultimamente sia stato superato), visto su Rai 1 il 22/10/2001 con 16.080.000 spettatori, prima de “Il nome della rosa” e “Rambo 2 – la vendetta”.
Fino ad ora rimane il film più amato e più riconosciuto all’estero, e soprattutto in America.
C’è da segnalare che questo capolavoro fu girato nel ‘97, proiettato nel ‘98, e premiato da tutti nel ’99. Dopo di questo nebbia, come quella che si vede quando Guido, nei campi di concentramento, tenta di creare un approccio musicale con Dora che le è lontana. Ci vuole amore e passione.