mercoledì 27 aprile 2011

Scusa ma ti chiamo amore

Niki (Michela Quattrociocche) è una ragazza di 17 anni: bella, mora, solare, indifferente allo studio e le piace godersi la vita. E’ molto attaccata alle sue tre amiche Diletta, Olly ed Erica, ed insieme formano un gruppo chiamato “le onde”. Un giorno Niki andando a scuola con lo scooter sbanda sulla macchina di Alex (Raoul Bova), un uomo sulla quarantina che fa il pubblicitario. Questi è appena stato mollato da Elena, la sua ragazza storica, che all’improvviso ha deciso di prendersi una pausa di riflessione un po’ strana. Alex ultimamente è un po’ frustrato, e i suoi amici, che gliene combinano di tutti i colori, di certo non gli danno una mano. Dopo l’incidente con Niki succedono una serie di episodi: lui è costretto da lei ad accompagnarla a scuola per poi riprenderla al suono dell’ultima campanella (lei vuole tenere nascosto suoi l’incidente della moto)… lei se ne innamora subito, a prima vista, perché è un uomo maturo, è attraente, ha fascino, piace alle donne ( te credo, è Raoul Bova! XD) e fa di tutto per stare sempre occupata con lui… per Alex lei è un impedimento, come una ragazzina testarda e rombi palle che gli sta incasinando la vita.. però col passare del tempo le si dimostra una buona e saggia amica, e lo aiuterà anche in una sfida di lavoro… così succede che anche Alex casca nella trappola e si innamora della ragazza sbarazzina, più giovane di 20 anni, in occasione di un pomeriggio in spiaggia.
L’amore che sboccia tra i due è visto in maniera curiosa da tutte le persone che circondano i due protagonisti, ma che non lo vedono come un impedimento o come una cosa malsana, anzi, sembrano pure invidiarli, lei perché sta con un uomo maturo, lui perché sta con una molto più giovane… e che c’è di male in fondo!
La storia va verso la conclusione tra mille vicissitudini: lui vince la sfida di lavoro, la sua ex ritorna improvvisamente senza chiedere scusa, e si scopre che era stata con lo sfidante di Alex.
Proprio per il rientro della ex l’amore tra i nostri due protagonisti prende una sosta, soprattutto a causa di lui. Passeranno dei momenti difficili, anche perché lei è impegnata alla preparazione degli esami e all’assistenza di una delle “onde” finita grave in ospedale. Tutto si risolverà per il meglio, come in gran parte delle storie d’amore. Alex e Niki ritrovano la scintilla sulla cima di un faro che segna la nuova luce splendente del loro amore.   
I genitori di lei, pur conoscendo di vista Alex non fanno obiezioni sulle scelte della figlia e approvano la relazione. Questo ai giorni nostri può sembrare un tantino irreale. Qualunque genitore sano di mente si preoccupa, almeno per un po’, del futuro della figlia, soprattutto se è molto giovane come in questo film. La preoccupazione cresce ancora di più se il partner della figlia è un po’ più grande di lei, in questo caso quasi 20 anni di differenza.
Stranamente in questo sceneggiato la cosa non provoca tanto scandalo, anche perché gli unici che sembrano un po’ più preoccupati degli altri sono gli amici, che come detto prima non vedono la cosa come un problema e che addirittura vorrebbero cimentarsi in Alex e Niki.
Fin qui la cosa è abbastanza irreale. Ma siccome è un film, cioè pura fantasia che può dissociarsi dalla realtà, lo scandalo amoroso è permesso, eccome, a mio avviso.
Non è detto che un film, come spesso succede, debba dipingere in tutto e per tutto la realtà. Anche perché la realtà, come spesso accade, assume più sfaccettature: può essere che nel mondo odierno esista una situazione alla pari di “Scusa ma ti chiamo amore”.  
 Evidentemente il regista, nonché, prima ancora, scrittore del libro, Federico Moccia, o ha potuto vivere in prima persona una situazione del genere, magari esterno alla vicenda, oppure, come sembra più probabile, ha assunto una spiccata fantasia che l’ha portato ai limiti del consentito.
Federico Moccia si può dire abbia fatto nuovamente centro con il suo stile. E’ uno scrittore di romanzi giovanili, adolescenziali, che ama tramutarli in film dove chi non legge molti libri, o preferibilmente di quel genere, può appassionarsi maggiormente.
Molte volte, anzi è meglio dire tutte quante, i suoi lavori vengono mal interpretati e giudicati, di conseguenza criticati, per il semplice fatto che non è un genere che tutti gradiscono e amano.
Moccia punta specialmente ad un pubblico femminile che non può fare a meno di catapultarsi dentro a storie d’amore da sogno, che tutte le ragazzine non riescono a fare a meno di desiderare vivere. E il nostro caro Federico è un tipo furbo, ingegnoso, metodico, e sa come arrivare nella testa e al cuore delle sue giovani fan. Il prototipo dei suoi libri, nonché dei suoi film, è sempre quello, non cambia mai, ed è vincente: usa come protagonisti una ragazza, preferibilmente mora, quindi non la solita scontatissima bionda vamp e un po’ sciocchina, ma una donna comune, che deve per forza di cose essere bellissima, con un carattere degno da contrastare l’animo maschile, fino a fargli perdere la testa. L’uomo, ribelle o dolce che sia, oltre a essere bello e dotato, deve saper fulminare la propria partner con lo sguardo, facendola diventare pazza d’amore. Questo riprende un po’ lo schema dei canti d’amore greci e latini, come Orfeo ed Euridice, Amore e Psiche, Enea e Didone….
Fortunatamente l’epilogo dei film di Moccia non è tragico come quello delle mitologie antiche, e non c’è da meravigliarsi, perché questo non è il classico film dove il pubblico preferisce la conclusione maledetta tra i due protagonisti, ma pretende l’arcinoto “lieto fine”, quindi qualcosa di semplice, volendo banale, ma più volte già visto.
Poi i due amanti vengono scortati dagli amici, anche loro succubi dell’incanto d’amore (come se il dio Eros stesse lì a punzecchiare tutti con le sue frecce incantate), ma la cosa che fa impazzire le donne, e allo stesso tempo innervosire gli uomini, è che gli amici di lui non possono fare a meno delle amiche di lei, arrivano a rendersi ridicoli, a volte imbarazzanti, pur di riuscire nel loro intento amoroso e sessuale. Le amiche di lei di solito ridono guardandoli, e sembra che se ne vadano disinteressate.. ma anche loro non possono farne a meno, quindi ritornano. 
Questo è il mondo femminile, e Moccia è astutissimo, si inserisce nell’animo delle donne con mano lesta e occhio vivo. "Scusa ma ti chiamo amore" a mio avviso è un buon film, non è impegnativo, come la gran parte dei film d'amore, ma è proprio questo il punto, è proprio per questo motivoe va apprezzato per quello che è.

sabato 12 marzo 2011

Avatar di James Cameron

PRIMA LA TRAMA,…

Nel 2154 una compagnia interplanetaria terrestre (RDA) trova e studia dei giacimenti minerari su un pianeta sconosciuto, Pandora. Questo è un pianeta primordiale, ricoperto da enormi e foreste pluviali e da alberi alti 300 metri. E’ abitato da degli essere chiamati Na’vi, alti tre metri e con una carnagione azzurra con macchie di vari colori verdastri. L’aria di questa specie di satellite non è compatibile per gli esseri umani, non è respirabile, quindi gli uomini terrestri hanno creato degli Avatar, che sono corpi ibridi genetici dei Na’vi. Con un interfreccia del cervello l’uomo può collegare se stesso all’Avatar. Ma il collegamento è possibile quando l’uomo di trova in uno stato di coma, all’interno di una capsula tecnologica. Compito dell’uomo, e anche del protagonista, l’ex marine paraplegico Jake Sully, che con un nuovo corpo sarà in grado finalmente di tornare a camminare, è quello di studiare e di portare sulla terra un cristallo con la capacità unica di fare da superconduttore a temperatura ambiente, e per la Terra sarebbe essenziale. Sully e la dottoressa Augustine sono i primi insieme ad altri ad essere mandati all’esplorazione del nuovo mondo. In una foresta Jake fa la conoscenza della guerriera Neytiri, che vede in lui i segni di Eywa, divinità locale. Jake è curioso, interessato, non può fare a meno di scoprire una nuova realtà che prima lo spaventa e poi lo affascina.
Egli scopre tutto quello che c’è da sapere su Pandora, grazie anche alla sua amica guida. Jake non può fare a meno di innamorarsi di lei, ed è contraccambiato, anche se la cosa non è ammissibile per i Na’vi. Ma il nostro eroe riesce comunque ad essere accolto. Jake e la dottoressa Augustine si affezionano così tanto al posto che non vogliono più tornare sulla terra, rinunciando così all’ingente premio promesso dai terrestri.
Improvvisamente il colonnello Quaritch attacca Pandora e i suoi abitanti pur di portare sulla Terra il prezioso cristallo. Prima c’è lo sgomento da parte dei Na’vi per via dell’abbattimento dell’albero, ma poi c’è la reazione che si tramuta in una ferocissima battaglia, dove Jake rimane gravemente ferito. La battaglia è vinta dai Na’vi che ora possono vivere in pace, e con l’aiuto dell’amore di Neytiri riusciranno a salvare in extremis Jake, che diventerà effettivamente un Na’vi.

…DOPO LA CRITICA

Cominciamo parlando dell’iperbole degli incassi: Avatar ha il primato del mondo con un guadagno di 1 miliardo e 800 mila dollari, che supera la cifra raggiunta dall’ex capolista, Titanic, dello stesso Cameron. Questa iperbole ha una certa logica. Il meccanismo usato da Cameron è sempre lo stesso di Titanic: grandi e consistenti effetti speciali, che implica sempre una quantità enorme di gente nelle sale, soprattutto un pubblico di giovane età, anzi molto giovane, perfetto per accogliere un fenomeno come lo è Avatar.                    
Non parliamo del digitale, che mai come in questo film ha segnato un passaggio influente e decisivo nella storia del cinema, il famosissimo e tanto osannato 3D. Ecco, “effetti speciali” e “digitale” sono le parole magiche per il trionfo del botteghino, come è di buon costume dal 2000 ad oggi, forse anche prima.
Possiamo dire che in questo Cameron è davvero un mago, uno stregone che con la sua magia ha fondato un impero sugli effetti speciali, grazie soprattutto all’aiuto della Weta Digital Workshop di Wellington, fondata credo da Peter Jackson con la notevole supervisione di Joe Letteri, vincitore di numerosi Oscar ( Il signore degli anelli, King Kong e lo stesso Avatar), e dell’Industrial Light & Magic di George Lucas e, perché no, anche di Steven Spielberg ormai. Questa ha fatto gli effetti speciali di quasi tutti i film più importanti, come Guerre stellari, Jurassic Park, Indiana Jones, Harry Potter e Pirati dei Caraibi.
Ma con questo carico di effetti speciali non voglio dire che il risultato è assurdo, forse un po’ esagerato lo è anche, ma voglio dare un punto a favore a lo stesso Cameron, perché il compito di un regista del suo calibro è anche quello di osare, in questo caso tentando di ribadire con tutta la potenza possibile una storia che è già stata raccontata più volte, ma rendendola più spettacolare… e se non può farlo un pezzo da novanta come James Cameron allora non saprei proprio a chi potermi rivolgere.
In fin dei conti il pericolo è proprio questo, che è esattamente quello dove Avatar è caduto e dal quale non si è ancora rialzato: il fatto che altri illustri maestri di cinema odierni e di altre epoche hanno già toccato e superato il tema di quello che potremmo chiamare “Eden”.
Intendo dire che nel cinema ci sono molte “chiavi”, o se vogliamo “messaggi”.
Partiamo con l’eroe, ossia l’avventura e il ritorno (da l’Odissea a Indiana Jones), l’Aldilà (Dante), l’amore che resta immortale nel tempo (Romeo e Giulietta, le opere di Shakespeare), passioni estreme (che partivano già dai miti tragici greci), i classici di Cenerentola con il mito della libertà ricercata, voluta e ottenuta, Freud e la letteratura (come esempio illustre mi verrebbe da citare Hitchcock). Ma il primo vero sentimento che si va a ricercare in effetti è proprio “l’Eden” che dicevo prima.
E’ il primo desiderio di ogni uomo o essere umano, almeno credo; comunque è nostro e da noi non si muove.
Eden o “ricerca della felicità” la troviamo quando un uomo vuole uscire dai soliti luoghi comuni, che molto spesso rischiano di diventare noiosi, anche se di solito il processo “noia” è già integrato da molto tempo.
Un uomo ha una propria civiltà ed educazione, sopraffatto dalla noia o da altri sentimenti come l’odio e la rabbia, tenta di ribellarsi, di evadere dalla propria realtà, come fece il protagonista di George Orwell, Winston Smith, in 1984, dove è costantemente alla ricerca di un luogo che non sia “oscuro”, che non sia controllato da un ente pubblico. Anche Tarzan può diventare un esempio coerente, perché decide di restare tra i suoi animali e nella foresta, piuttosto di andare in città e di “civilizzarsi”.
Questo ovviamente c’è anche in Avatar, che si ispira e si affeziona a questo luogo comune, e lo riprendere addirittura fino ad eccedere, ma dipende un po’ dai punti di vista e dai gusti.
Aprendo ora una chiave mistica, mi ha colpito un altro luogo comune, di grande impatto nel film, cioè quello de “l’albero della vita”. Esso è una pianta enorme, grandissima, immensa, bianca, colma di mistiche.
Un vegetale che trattiene tutta l’energia presenta sul pianeta, la protegge e vi custodisce anche tutte le anime precedenti al nostro racconto. Gli Avatar la adorano come una divinità, la divinizzano proprio, non ne possono fare a meno, addirittura ci vivono. Questo famigerato albero l’abbiamo già visto, diciamo che ha dei precedenti, se vogliamo pure degli avi. Quello che possiamo ricordare meglio, di grande memoria nel cinema più giovanile, quello di Pochaontas della Disney, identificata da “Nonna Salice”. Spero di poter dire con tranquillità che Cameron e i suoi effetti speciali hanno preso molto dalla cultura disneyana.
Ma ci sono tante cose, tanti oggetti, tanti particolari che possono essere ricondotti a Disney: L’Avatar ha una specie di lunga treccia dietro la coda, e anche gli animali domati da loro l’hanno. Hanno cavalli ed esseri volanti che devono saper domare per meritarsi la fiducia della propria gente. Il tutto si collega con la treccia, che collegandola ad un’altra garantisce fedeltà ed amicizia reciproca, appartengono l’un l’altro. Questo tipo di rapporto vale con qualunque genere di cosa, anche con le piante, con qualsiasi elemento naturale. Questo indubbiamente è un richiamo che fa venire in mente un legame sensuale e sessuale, che, anche se celato, è sempre stato fatto intuire nei cartoni animati di Walt Disney. E’ un marchio di fabbrica, equivalente ad un incantesimo, alla magia che dagli anni ’30 è diventata la firma dei nostri affezionatissimi “cartoni animati”.
Avatar senza ombra di dubbio è un film regale, destinato per forza di cose ad avere una voce in capitolo nella storia del cinema mondiale, ma può essere qualcosa di dannoso, un esempio ormai già troppo visto, sovradimensionato. “Effetti speciali” e “digitale” sono la salvezza per la nostra creatività e quella del cinema, ma a volte il troppo stroppia.  

Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg

Il 6 giugno del 1944 il Capitano John Miller (in realtà un comune docente delle scuole superiori, ma preso come capitano) effettua lo sbarco a Omaha Beach insieme ai suoi uomini. Qui se la devono vedere contro i tedeschi in un micidiale combattimento a fuoco.
Finito l’interminabile scontro il generale George Marshall, comandante di tutta l’armata americana, ordina a Miller e ai suoi uomini di andare alla ricerca e di trovare il soldato Francis Ryan, dopo aver appreso che la famiglia Ryan ha già perduto tre figli e che non vuole perdere anche il quarto.
Questi si è paracadutato per errore in Normandia, oltre le linee nemiche.    
                                    
Quando verrà trovato, se sarà trovato, dovrà far ritorno a casa. Il capitano e i suoi protetti saranno costretti ad una ricerca estenuante, ai limiti dello stress e della sfiducia, fino a portarli al ritrovo di loro stessi… quando si dice che la guerra è fatta per far perdere le orme di se stessi, questo film ha una risvolta al contrario. Il fatto di cercare il soldato Ryan è un escamotage, anzi, una figura retorica. Ryan è visto come una meta, una linea che dopo averla oltrepassata segnerà per Miller e i suoi compagni la fine della guerra (anche se loro lo capiranno solo quando ormai sarà sopraggiunta la fine). Ryan più come persona è inteso come un oggetto, come una coppa da vincere.. e i nostri eroi la vinceranno, perché è così che deve andare in un buon film americano di guerra che si rispetti.
Francis Ryan “assumerà” un aspetto umano solo alla fine del film, quando ormai sono passati decenni e lui è diventato anziano. Sulla tomba dell’eroe che ha fatto di tutto per ritrovarlo, il capitano Miller, si domanda se si sia veramente meritato di restare vivo in quella guerra e soprattutto in quelle battaglie che hanno segnato per sempre la storia della guerra, dell’America e soprattutto dell’intera umanità. Ne rimarrà soltanto una bandiera americana a stelle e strisce, grigia e buia, quasi consumata, che sventola piano piano.
Questo è un dramma bellico d’alto rango, di incredibile pregio, che lo si può dividere in 3 atti:
1. lo sbarco in Normandia. La guerra vista come carneficina e caos ( i primi 24 minuti forse sono quelli più acclamati della storia del cinema, mai creato uno sbarco con un pathos così intenso, così simbolico, è perfetto!.. e da vedere e sentire più volte! )
2. La ricerca di Ryan. Forse un po’ troppo convenzionale e già vista su più piani, ma è ricca di problemi, di questioni che non portano a una risposta precisa.
3. La battaglia nel paesino di Ramelle. E’ un finale d’alto cinema. Una squadra che lotta allo stremo per tenere in vita Ryan, il simbolo della libertà, ed un ponte, che è il segno della fraternità e dell’amicizia che tiene legato più paesi.
Film di grande impatto e di enorme bellezza, soprattutto tecnicamente, ma anche pieno di stereotipi, come è consueto nei film di Hollywood… e guai se non lo fosse.
Nordamerica e Francia mai realizzate in questo modo: i tedeschi nemici fino a prova contraria e la Francia di un vuoto incredibile. Il tutto diventa di un nostalgico pazzesco.
Questo può effettivamente definirsi un film DI guerra. E’ differente da “La sottile linea rossa”, quello è SULLA guerra. Non è nemmeno paragonabile all’ottimo “Full metal jacket” di Kubrick e neanche al mio avviso scarso “Apocalypse Now”  di Coppola.
5 Oscar meritatissimi (e forse anche troppo pochi): regia (Spielberg di un’incredibile creatività ed incisività, magistrale fino a prova contraria), fotografia (Janusz Kaminski, la migliore di sempre), Montaggio (Michael Kahn, eccezionale), suono e montaggio sonoro (Gary Rydstrom, di una bravura immensa). Da evidenziare anche la grande bravura di Tom Hanks nei panni del capitano Miller. Per l’Oscar del’99 dopo Roberto Benigni (La vita è bella) e Edward Norton (American History X) veniva subito lui…. Anche se forse doveva vincerlo Jim Carrey per “The Truman Show” che non fu nominato inspiegabilmente.
E’ decisamente un film made in U.S.A, ma con un fascino straordinario, un’epopea incredibile, che non può fare a meno di essere il maggiore film di guerra di tutti i tempi.

martedì 22 febbraio 2011

Gli Intoccabili di Brian De Palma

Gli Intoccabili sono degli agenti scelti, specializzati, che hanno il compito di riportare un po’ di ordine nella Chicago degli anni ’30 dilaniata dal problema del proibizionismo e dalla mafia corrotta e sanguinaria della banda di Al Capone (Robert De Niro).
L’incarico di “togliere l’immondizia dalla strada” è affidato ad Eliott Ness (realmente esistito, qui interpretato da Kevin Costner), uno sfortunato funzionario governativo federale, screditato dai suoi compagni e dall’intera polizia di Chicago.
Eliott è un uomo tutto d’un pezzo, rigoroso di giustizia e che non ha paura di guardare in faccia il crimine. Ha una moglie in dolce attesa e una nuova casa da sistemare per l’imminente allargamento della famiglia.
Ness non ha nessuno su cui poter contare, così decide di formare una squadra di uomini fidati: trova James “Jimmy” Malone (Sean Connery), un anziano sbirro di pattuglia di cui Eliott è rimasto colpito dal coraggio e dalla incredibile incorruttibilità. Jimmy inizialmente stenta, ma poi capisce che non ha niente da perdere e accetta pur di togliere di mezzo Capone.                          

Al team si aggiungono l’italoamericano Giuseppe Petri, detto George (Andy Garcia) e il ragioniere/contabile Oscar Wallace (Charles Martin Smith).
Questa squadra composta da un federale, due sbirri e un contabile prima è oggetto di risate dei colleghi, poi si dimostra testarda, tenace e sfrontata, fino a diventare incorruttibile, “intoccabile” appunto. I protagonisti ne vedranno delle belle, a partire dall’assalto ad un magazzino colmo di liquori illegali, passando  al vincente (ed avvincente) raid sul confine canadese, fino alla famosa lotta tra bene e male (Ness vs. banda di Capone) sulla scalinata della stazione dei treni, terminando col processo in tribunale di Capone, con la arcinota esclamazione di De Niro: “sei solo chiacchiere e distintivo!”                                                                 Tutto si risolve con un lieto fine dove Ness al termine del proibizionismo va a farsi una bevuta , ma la vicenda è travagliata e dolorosa in molti punti: all’inizio muore una bambina nell’esplosione di un locale; da ricordare la pazzia del boss mafioso che non guarda in faccia nessuno; le varie minacce degli scagnozzi di Capone a Ness e alla sua famiglia; la morte violenta del contabile in ascensore e del caro vecchio irlandese Jimmy nella sua casa; non tralasciando l’inseguimento senza sosta tra Ness e Nitti, con la peggior sorte dell’ultimo.
                                                                                       


E’ un film avvincente da qualunque punto di vista, probabilmente il miglior film di De Palma.                

Un ritratto eccezionale di un grande uomo quale è stato Eliott Ness, colui che mise in ginocchio Al Capone, anche se gran parte del merito andrebbe al suo contabile che è riuscito a smascherarlo per frode fiscale.
Una ricostruzione perfetta di una città in uno dei suoi periodi più neri tra mafia e proibizione di alcoolici. Bellissime le scenografie di Patrizia Von Bradenstein e stupendi gli abiti di Armani.
Una magnifica interpretazione di Sean Connery di un poliziotto che per tutta la vita ha avuto come motto personale la giustizia. E’ il ritratto perfetto dell’uomo non corruttibile. Riesce così bene che le interpretazioni di James Bond potrebbero passare di secondo piano. La scena della sua morte è grandissimo cinema!
Tutti bravi, ma bravissimo anche De Niro, che segna uno dei passi fondamentali della sua carriera camaleontica interpretando uno dei criminali più sfrontati e malvagi d’America… ma non è a livello di Connery. In quell’anno del 1987 tra i due si può di certo inserire il fortissimo e severissimo serg. Hartman di “Full Metal Jacket”, uno dei personaggi meglio riusciti di tutti i tempi.
Il film fu poco corteggiato per la notte degli Oscar, che ottenne la miseria di 4 nomination con l’unica vittoria stra meritata di Connery come attore non protagonista.
Sicuramente sarà stato così perché quello fu l’anno de “L’ultimo imperatore” del nostrano Bertolucci… certo che la colonna sonora di Ennio Morricone è straordinaria! 

venerdì 28 gennaio 2011

La vita è bella di Roberto Benigni

Questa è la vicenda, o forse è meglio dire la triste favola, di Guido Orefice, un cameriere toscano ed ebreo che sul finire degli anni ’30 incontra Dora, una maestrina del paese, e se ne innamora perdutamente a prima vista. Lui tenta in tutti i modi di conquistarla, facendosi credere un personaggio borghese, arrivando anche a essere ridicolo in molte occasioni, ma efficace, come nell’occasione della scuola dove lei insegna. Lui è ossessionante nei suoi confronti, anche se la tratta in modo assai garbato, proprio come una vera “principessa”, e alla fine riesce ad avere il suo cuore. 
Il film è diviso in due parti, questa era la prima: una storia d’amore che la si potrebbe definire proprio all’italiana: dolce, sensibile, troppo romantica, un amore cercato, voluto e raggiunto, dove l’uomo può essere paragonato a quello rinascimentale, che si umilia e si autodistrugge per profanare il cuore della bella donna amata.
E il galantuomo che davvero ama riesce sempre a ottenere ciò che vuole, o quasi.
La seconda parte è triste, tragica, perché racconta di un fatto triste della vita, la parte più triste dell’esistenza umana: la seconda guerra mondiale e i campi di sterminio.
Guido e Dora hanno un figlio, Giosuè, di 6 anni, e se lo godono con tutte la loro energia e passione.                                                                  

In questo intervallo di tempo però sono arrivate anche lo scoppio della guerra, le leggi razziali del 1938 e quindi le deportazioni. Come detto prima Guido è ebreo, di conseguenza anche suo figlio. 
Così sono chiamati dai nazisti a salire su un treno con destinazione i campi di concentramento.                                                  

Dora per non staccarsi dalle due persone a lei più care decide di salire su quel treno che religiosamente non le appartiene. Arrivano, il bambino è ignaro di qualunque pericolo, anche perché il padre e lo zio gli fanno credere che è un gioco a premi, con in palio un carro armato se si arriva a totalizzare mille punti.                        
Il bambino arriva alla fine del gioco, trovandosi davanti un carro armato statunitense che crede di aver vinto. Il soldato lo fa salire, fanno un giro e Giosuè per strada ritrova sua madre, che alla fine resta la sua più grande vittoria in questo gioco devastante. Guido non arriva ai mille punti.
E’ un film a dir poco straordinario, probabilmente tra i primi tre che l’Italia si mai stata capace di sfornare dalla propria cinematografia.
Importante anche per i temi che affronta: son due film in uno, prima vi si tratta dell’amore tra uomo e donna, poi dell’odio tra razze. Comunque sia, la prima parte spiega e giustifica la seconda.     
             Il tutto è nettamente separato per ambientazioni, toni, luci e colori, con una straordinaria fotografia del leggendario direttore Tonino Delli Colli, divenuto celebre insieme a Fellini.
Roberto Benigni è diventato una star al 100% con questo film, che segna la sua sesta regia dopo lungometraggi di buon calibro, ma non fantastici, come “Il piccolo diavolo”, “Johnny Stecchino” e "Il mostro".    
                 
E’ decisamente un film da Oscar: vince ben tre statuette su sette nomination per il Miglior film straniero (ovviamente aggiungerei), Attore protagonista a Benigni (ed è una vittoria sensazionale per lui e per il nostro paese) e per la Colonna sonora indimenticabile di Nicola Piovani.                                                   Fu nominato anche per Miglior film, Regia di Benigni, Sceneggiatura (scritta a quattro mani dal comico toscano Vincenzo Cerami) e il Montaggio.                                                                                                         

Vince anche 5 Nastri d’Argento, che ormai hanno più prestigio dei David di Donatello.
Nella televisione italiana questo film registra un record: E’ il film più visto in RAI (anche se credo che ultimamente sia stato superato), visto su Rai 1 il 22/10/2001 con 16.080.000 spettatori, prima de “Il nome della rosa” e “Rambo 2 – la vendetta”.      
                                                                                 
Fino ad ora rimane il film più amato e più riconosciuto all’estero, e soprattutto in America.                     
C’è da segnalare che questo capolavoro fu girato nel ‘97, proiettato nel ‘98, e premiato da tutti nel ’99. Dopo di questo nebbia, come quella che si vede quando Guido, nei campi di concentramento, tenta di creare un approccio musicale con Dora che le è lontana. Ci vuole amore e passione. 

lunedì 17 gennaio 2011

Big Fish - Le storie di una vita incredibile di Tim Burton

E’ la storia di un uomo, Ed Bloom, un commesso viaggiatore in pensione che ha la passione, o forse meglio dire la malsana abitudine, di raccontare al figlio Bill in primis e poi agli altri componenti della sua famiglia i racconti stravaganti nonché assurdi del suo colorato passato.
Evidentemente i fatti da lui narrati sono troppo fantasiosi per poter essere identificati come veri, però il modo che ha di raccontare le cose rende il tutto come se fosse reale, in maniera alquanto affascinante… infatti è così reale che alla fine, in occasione del suo funerale, i personaggi dei suoi racconti si presentano al corteo, quindi sono veri sul serio. O è frutto di una fantasia collettiva di tutta la famiglia che per amore segue le orme del patriarca? Molte domande, poche certezze…
La cosa di cui possiamo essere più che certi è che questo è il film meno gotico di Tim Burton, e forse quello più gioioso. Il grande regista americano questa volta si è impegnato in un’avventura meno facile di quello che sembra: vuole parlare di un uomo semplice, medio, non particolarmente dotato ma senza ombra di dubbio molto determinato in ciò che vuole. Ed Bloom si divide in due parti: quella giovane è interpretata da un bravissimo Ewan McGregor, che prende le redini di un ruolo che sarebbe potuto calzare a pennello anche all’attore feticcio di Burton, Johnny Depp.
Ma lo scozzese Ewan se la cava egregiamente, mettendosi nei panni di un uomo disposto a tutto per raggiungere i propri sogni, anche ad aspettare mese per mese per sapere un stupidissimo particolare, volendo insignificante anche se non è così, della donna che l’ha fulminato d’amore.
Quello che il pubblico si può chiedere è se il giovane commesso è reale davvero oppure se è per metà frutto della fantasia del vecchio Ed, interpretato da uno strepitoso Albert Finney, che dai tempi di “Tom Jones” di Tony Richardson non ha mai perso la sua simpatia telegenica e il suo umorismo fuori dagli schemi. Questi si immedesima magistralmente nei panni di un ciarlatano (in senso positivo) che assilla il figlio con i suoi racconti incredibili, ma che ha la bravura di rendere ogni singolo fatto assolutamente originale. Egli è sia eroe sia buffone: l’Ed Bloom che brama così tanto raccontare non esiste al di fuori delle storie che racconta. La sua è un’instancabile ricerca dell’utopia, della fantasia, del sogno… ma si perde il nesso con la realtà. Allora com’è meglio vivere?
In questa occasione Tim Burton si evolve: raccoglie un cast sensazionale (McGregor, Finney, Jessica Lange, la moglie Helena Bonham Carter nei panni dell’amante, il ladruncolo Steve Buscemi, il mannaro Danny DeVito, l’Oompa Loompa de “La fabbrica di Cioccolato” Deep Roy e un’irriconoscibile Marion Cotillard, ancora agli inizi, fa la moglie di Bill e si nota anche una piccola Miley Cyrus), li dirige efficacemente, toglie il noto macabro dei suoi film e colora l’ambiente dandogli un’anima fantastica, ma pur sempre con luci e ombre, ed il risultato è davvero eccellente.
Amio avviso avrebbe meritato un po’ più di considerazione da parte di coloro che si occupano di attribuire premi a chi li merita. Non è un capolavoro, ma sicuramente è un film estremamente godibile, rilassante, affascinante, come già più volte detto fantastico, recitato molto bene da tutti, con parti tecniche ben sviluppate, in primis fotografia, scenografia e colonna sonora.
Tim Burton docet!

Moulin Rouge! di Baz Luhrmann

Parigi: fine 1899, inizio del nuovo secolo. Christian, giovane aspirante scrittore inglese, si ribella al padre trasferendosi in un quartiere bohemien parigino per poter sviluppare le sue doti artistiche. 
Qui incontra Henri de Toulouse – Lautrec (pittore esistito realmente) e altri nuovi amici che stanno provando un numero canoro rivoluzionario da presentare ad Harold Zigler, una versione “buona e paterna” del Mangiafuoco, nonché proprietario del Moulin Rouge, il più famoso locale a luci rosse di Parigi.
Christian col suo talento migliora il numero e Zigler gli vuole dare fiducia. 
Quando lui e il suo gruppetto arrivano al locale questi incontra Satine, il “diamante splendente” del Moulin Rouge. Christian si innamora a prima vista, anche se lei è già promessa al Duca di Monroth, il produttore del prossimo spettacolo.
Il vero scopo di Satine è quello di diventare un’attrice “vera” e di lasciare il Moulin per una carriera da vera professionista. All’insaputa di tutti lei è malata di tubercolosi, in stato piuttosto avanzato.
Lei entra in scena cantando Diamond are girl’s best friends, citando il numero indimenticabile di Marylin Monroe arrivando a Material Girl di Madonna.
L’intero musical trasforma in melodie indimenticabili leggendarie canzoni di David Bowie, Bono, i Queen, Sting, Paul McCartney, Elton John e Madonna  dando un po’ di pepe alle danze e facendo catapultare lo spettatore nella reale atmosfera del can can che ha reso tanto famoso il Moulin Rouge.
Alla musica e alla commedia ben calibrata del film viene accostata la drammaticità di un’autentica storia d’amore, quella tra Christian e la bella Satine: un amore forte, impetuoso come le danze trasgressive dei ballerini del quartiere bohemien parigino. E’ un triangolo colmo di passione quello che vede ai propri vertici i due protagonisti e il Duca, sempre pronto a rompere il legame segreto dei nostri due eroi. Chi avrà la meglio alla fine? Nessuno, come in un buona storia d’amore accecante che si rispetti. 
Un segreto troppo grande da poter nascondere per sempre, anche se il Duca capirà solo verso la fine la tresca amorosa. Rimarrà pur sempre un’avventura.
Dall’acclamato regista di Romeo + Giulietta, che si risalta trasformando “la Traviata” di Giuseppe Verdi in un grande capolavoro, nonché il suo film più acclamato e meglio riuscito.
Questo è un film che può piacere o no, ma rimane pur sempre un capolavoro, uno spettacolo di dramma e comicità, che riecheggia tra luci e ombre fino ad esplodere in miliardi di colori.  
Incredibili le capacità canoriche di Ewan McGregor; John Leguizamo (Toulouse - Lautrec) dà una prova smaliante, forse la sua prova migliore dopo "A Wong Fu, grazie di tutto, Julie Newmar"; Jim Broadbent lascia il segno facendo diventare il personaggio di Harold Zidler una figura leggendaria; simaptica la partecipazione di Kylie Minogue nei panni della fatina verde (quando il gruppo di musicisti è ubriaco dopo aver bevuto assenzio)... Nicole Kidman mai fatto un ruolo del genere, di una bravura immensa, e sicuramente meritava più l'Oscar lei di Halle Berry in "Monster's ball"...   
Il film ha dei toni accesissimi e coloratissimi, a dir poco sfarzosi (da notare i costumi e le scenografie di Catherine Martin premiati con l’Oscar), rendendo il tutto un vero “diamante splendente” o “spettacolo spettacolare”.